6. (1^ parte) Genealogia del pasticciotto: le forme, il contenuto, il nome.
di Alessandro Massaro [© «Tutti i diritti riservati»]
Veritas filia temporis
Abbiamo ricostruito, grossomodo, la storia degli antenati delle componenti principali del pasticciotto: la crema pasticciera e la pasta frolla, anche e soprattutto attraverso la testimonianza di alcuni ricettari antichi.
Va tenuto conto, tuttavia, dell’esistenza di alcuni prodotti regionali meridionali, i quali hanno ognuno una propria storia e forse origini comuni, e le cui ricette (procedimenti, ingredienti, forme, nomi ecc.) potrebbero aver avuto un ruolo, attraverso la circolazione di conoscenze, nell’ideazione finale del pasticciotto alla crema salentino.
Riguardo i tortini monoporzione in genere, genericamente definiti ‘pasticcini’, 'pasticcetti' o 'pasticciotti' nelle tradizioni dolciarie italiane, e meridionali in particolare, possiamo immaginare una specie di "albero genealogico" nel quale i capostipiti sono le formule contenute in vari ricettari antichi e i geni le esperienze, le conoscenze e le formulazioni creative dei cuochi, ma anche gli ingredienti, gli strumenti e i metodi di preparazione da essi suggeriti.
Man mano che scorriamo le pagine di ricettari sempre più recenti, incontrando tradizioni e l’ingegno di nuovi cuochi o pasticcieri, troviamo anche l’elaborazione di nuovi prodotti dolciari i quali, a seconda delle contaminazioni dei luoghi in cui vengono preparati, assumono connotazioni differenti e sempre nuove, vere e proprie ibridazioni delle forme, nomi, ingredienti, procedimenti, ecc..
Vedremo meglio questa evoluzione nella letteratura gastronomica antica in un altro articolo. Per ora, ci soffermeremo, invece, soprattutto agli indizi più recenti, ossia al lessico adottato da alcune note tradizioni regionali e daremo solo alla fine alcuni spunti essenziali che fanno riferimento a dei ricettari famosi, prendendo ad esempio delle ricette che hanno come estremi temporali di questa evoluzione il XVI e il XIX secolo.
La varchiglia cosentina e il fruttone leccese
C'è chi sostiene che nel 1300, in Calabria, per la precisione a Cosenza, venissero prodotti dei dolci dalle monache Carmelitane scalze, che si chiamavano ‘varchiglie’ (oggi: varchiglie alla monacale). Altri accettano l'ipotesi che questo nome derivi dallo spagnolo 'barquilla' (= cestino), ma gli Aragonesi governarono sul Ducato di Calabria oltre un secolo più tardi, dopo gli Angioini, perciò potrebbe trattarsi semplicemente di un vezzeggiativo derivante dal volgare ‘varca’, per 'barca' [cfr. Vincenzo D'ORSA (per), La tradizione greco-latina nei dialetti della Calabria citeriore, Dalla Tipografia Migliaccio, Cosenza, 1876], cioè una pronuncia dovuta all'antica influenza della lingua greca.
Le ‘varchiglie’ sono composte da un involucro esterno, di una specie di pasta frolla cui si dava la forma di una barchetta; nel complesso vengono viste come le antesignane dei ‘bocconotti’ meridionali (calabresi, lucani, abruzzesi, molisani, campani, pugliesi, salentini…), ma si potrebbe immaginare anche del fruttone salentino. Il bocconotto, peraltro, viene prodotto in un piccolo recipiente (cd. ‘cassa’, nei ricettari antichi: vedi ricettario di B. Scappi) di rame stagnato di forma tonda o ellittica, ovvero a forma di barchetta e perciò, a sua volta, potrebbe sembrare che dalla originaria ‘varchiglia’ ne sia stato mutuato il nome, traslitterato: barchiglia. Questo sembrerebbe, a prima vista, spiegare facilmente l’origine del nome dato alle formelle di rame («barchiglie di rame da far pasticciotto numero otto») testimoniato nell’inventario relativo ai beni e alle sostanze di Mons. Orazio Fortunato vescovo di Nardò, redatto postumo, nel 1707.
Ma, le cose non stanno esattamente così.
Non deve nemmeno ritenersi assolutamente un caso che i bocconotti li ritroviamo specialmente nel lessico gastronomico di varie regioni meridionali: cioò dipende, come vedremo nella seconda parte di questo capitolo, dalla diffusione di alcuni ricettari antichi gastronomici.
Dunque, la varchiglia viene descritta come: «uno scrigno di pastafrolla che racchiude un ripieno di farina di mandorle e zucchero (pasta di mandorla, N.d.R.) e che viene infine ricoperto di cioccolato» (vedi qui, e anche qui).
Forse non è un caso che la cosiddetta varchiglia alla monacale somigli al fruttone salentino, costituito da un involucro di pasta frolla e ripieno con uno strato di marmellata (di amarena, albicocca o pera, ecc.), uno di pasta di mandorla e, infine, ricoperto da uno strato piatto di glassa al cacao o di cioccolato fondente.
La riprova del legame tra la varchiglia alla monacale e il fruttone leccese l'ho avuta mediante un'intervista ad Anna Roberti, di Lecce, classe 1933. Da ella ho appreso che sua madre faceva i pasticciotti con l'ausilio di formelle di rame stagnato di forma ovale, peraltro ereditate. Li chiamavano sia buccunotti sia pasticciotti. Il primo termine, secondo lei, era un termine dialettale, e in effetti si trova nel vocabolario del Rohlfs, che non riporta, invece, la voce: pasticciottu. Quindi, ritengo che questo termine appartenesse a un gergo proprio delle famiglie benestanti, come lo era quella della Signora che ho intervistato. Un'altra cosa interessante che mi ha detto, è che uno dei suoi nonni, originario del foggiano, chiamava i fruttoni: 'barchiglie', ma aveva una dimensione tripla rispetto a quella che si produce oggi. Il termine 'fruttone', invece, secondo alcuni anziani (sia di Galatina, sia di Lecce) probabilmente deriva dal fatto che fino agli anni '50 del secolo scorso, più o meno, il ripieno impiegato per questo dolce era ottenuto dal reimpasto di rimanenze della pasticceria, notizia, quest'ultima, che mi è stata confermata dal maestro Mimmo Tedesco di Lecce e da altri pasticcieri anziani di Galatina.
Personalmente credo che quello attuale sia una derivazione della pasta alla frutta e del bucconotto entrambi prodotti da Gino Sabella (Galatina, Gran Caffè, attività tenuta dal 1926 al 1975), perché lo stesso non usava i 'rimasugli', ma appunto frutta a pezzi, confetture e pasta di mandorla e mandorle a pezzetti come ingredienti di farcitura per le proprie paste, che smerciava sempre fresche. Successivamente (fine anni '40), ha utilizzato la copertura di glassa al cacao (spalmata a spatola) e, alcuni anni dopo, in alternativa si è utilizzato lo strato sottile di cioccolato fondente.
Quello che conosciamo oggi, con la farcitura composta dai vari strati di marmellata, pasta di mandorla e infine lo strato sottile di glassa al cacao (o cioccolato fondente), ritengo che sia stato così perfezionato dal maestro Rafelino Bello nei primissimi anni '70, contribuendo, peraltro, alla diffusione di queste ricette a Lecce e altri paesi salentini (Gallipoli, Corigliano d'Otranto, Cutrofiano, ecc.) e del brindisino (Brindisi, Torchiarolo, ecc.).
Il legame tra: barchiglia, bocconotto e pasticciotto e l'utilizzo che talvolta se ne è fatto per uno stesso prodotto è dovuto in parte alle diverse influenze culturali nella provincia di Lecce e nello stesso capoluogo di provincia. Ma, gli stessi termini, come vedremo, sono stati utilizzati, come si è accennato, nei ricettari antichi, seguendo l'interpretazione (sia gergale, sia in termini di ricetta) dei vari cuochi, loro autori.
Lo stesso Gerhard Rohlfs riporta come descrizione della barchiglia: «(L 1) f. specie di dolce rotondo e pieno di crema». Questa stessa spiegazione, infatti, il Rohlfs la darà anche per il termine 'buccunottu'. E' evidente che, a parte la forma (tonda e non ovale), sembra che si stia parlando di una specie di pasticciotto (e, stranamente, non è proprio l'ormai noto pasticciotto 'leccese').
Il bocconotto e il pasticciotto (gli indizi recenti)
Il termine bocconotto è una derivazione gergale gastronomica di bocconetto che compare per la prima volta nella Lucerna de Corteggiani di Giovan Battista Crisci, edito a Napoli nel 1634, un ricettario che comprende moltissime ricette, diffuse principalmente nell’Italia centro-meridionale.
Bocconotto, peraltro, sembra derivare dal termine pasticciotto, secondo un accostamento di termini operata dallo stesso Giovan Battista Crisci, ad esempio nel titolo: «Pasticciotti in boccone ripieni di cose dolci, e zuccaro» (Lucerna… cit., p. 314).
Successivamente, Crisci semplifica l’utilizzo dell’espressione pasticciotti in boccone attraverso il termine bocconetti come si evince dai seguenti titoli:
«Pasticciotti in boccone ripieni di gelo di cotogni, e di zuccaro» (Ivi, p. 246)
«Bocconetti di gelo di cotogna, e conserva di cetro» (Ivi, p. 318).
Dunque, appare evidente l’utilizzo del termine bocconetto in alternativa a pasticciotto, e da qui, è facile intuire come questo termine sia mutato successivamente in bocconotto, cambiando solo una vocale.
Antonio Latini, nel suo ricettario Lo Scalco alla Moderna farà un uso più esplicito del termine bocconotto; ad esempio nella ricetta «Bocconotti alla Genovese», ma in realtà non si tratta di un dolce:
«Farai la pasta frolla, con Butiro, Zuccaro, e Rossi d’ova; ne formerai Bocconotti, a proportione, riempendoli di Midolla, e Cocuzzata piccata, v’aggiungerai, Rossi d’ova fresche, Cannella, un po’ d’Acqua d’odore; ne formerai Bocconotti; gli friggerai in buono Strutto ò Butiro; cotti, che saranno, te ne potrai servire, per Piatto, ò per Regalo de’ Piatti, come più di piacerà, con Zuccaro sopra, overo Ambivera; che sarà un Piatto assai nobile» (Lo Scalco… cit., p. 356).
Nel XVIII secolo, sarà Il Cuoco Galante (Napoli, 1773) di Vincenzo Corrado a fornirci nuove ricette dolci del bocconotto. Ad esempio, troviamo i «Bocconotti alla Caramella» (Ivi, p. 215) e i «Bocconotti alla Regina» (Ivi, p. 199)
«Delle altre paste delicate - [Bocconotti] Alla Regina. – Fatte piccole cassettine di pasta frolla, e cotte al forno, s’empiranno di pasta di uova faldicchere, mettendoci in mezzo delle amarene giulebbate, e coverte con pasta di merenghe, si faranno rappigliare al forno, e si serviranno.»
Ricetta che, peraltro, anticipa, in un certo qual modo, di oltre un sessantennio quella delle «Bucchinotte d'amarene» di Ippolito Cavalcanti (Cucina Teorico-pratica, Napoli, 1839):
«Piglia nu ruotolo de sciore, miezo de zucchero, e miezo de nzogna, dudece rossa d'ova, ni pucurillo de sale, e mbasta buono, stienne chesta pasta co lo laniaturo, ne farraje na pettola doppia quanto a no dudice carrino,e furmarraje li bucchinotte dint'a lle forme, nge miette la mbottunatura d'amarene e po l'auta pasta, accussì farraje li bucchinotti, li farraje cocere a lo furno e po li sformarraje accongiannoli dinto a lo piatto»
A parte queste notizie storiche, che trattano ricette veicolate nelle varie regioni meridionali italiane nei secoli scorsi, in diversi luoghi sono sorti attorno al bocconotto (e non solo) alcune leggende fantasiose, dette anche 'metropolitane' o 'contemporanee', oramai diventate anch’esse parte del folklore popolare.
I bocconotti sono dolcetti che si trovano in molte regioni dell’Italia centro-meridionale, ma le ricette differiscono tra loro, avendo subìto le influenze delle tradizioni locali.
Il bocconotto ha avuto un’evoluzione ampia, e una tradizione lo vorrebbe simile, inizialmente, a una varchiglia calabrese, per via del metodo di preparazione e di alcuni ingredienti come la mandorla, utilizzata in principio, secondo la tradizione abruzzese, come addensante, assieme al caffé e al cioccolato liquidi.
Nella maggior parte delle regioni meridionali, il bocconotto oggi contiene la crema pasticciera, talvolta abbinata ad altre creme o marmellate e, come il pasticciotto, ha la copertura di pasta frolla, solo che, a differenza di quest’ultimo, si usa terminare con una spolverata di zucchero a velo, mentre il pasticciotto artigianale normalmente viene spennellato con l’uovo in modo che con la cottura la parte superiore, peraltro bombata ed evidenziata ulteriormente da un solchetto perimetrale, che si forma durante la cottura, che pone in rilievo anche il bordo esterno, assume una colorazione ambrata e imbrunita nelle parti estreme, al limite della cottura, come gradiscono consumarlo alcuni galatinesi (una caratteristica che ha assunto anche il rustico galatinese).
Descriviamo sommariamente i bocconotti come prodotti in alcune delle regioni italiane.
I bocconotti alla romana per i romani sono tipici del Carnevale; il ripieno è composto da ricotta e canditi, ma possono essere caratterizzati da una certa predominanza dell’aroma di cannella, e si possono preparare nella forma di grandi ravioli, oppure in forma ovale, quadrata o rettangolare, in quest’ultimo caso ricavata dal ritaglio di un’unica torta.
(Questo tipo di ricetta mi fa tornare in mente quella fissata da Pellegrino Artusi nella sua opera: la “Pizza alla Napoletana”).
I bocconotti calabresi sono anch’essi legati a delle ricorrenze, cioè usati pressoché in tutte le feste. Sono preparati con la pasta frolla e probabilmente, come abbiamo accennato, derivano anch’essi (come il fruttone leccese) dalle antiche ‘varchiglie’ cosentine. In origine, hanno iniziato a differire certamente per l’aspetto, poiché le varchiglie hanno la forma di una barca, mentre i bocconotti hanno conservato in molti luoghi quella tonda, piccola, tanto da congetturare facilmente che il nome sia dovuto, già in origine, alla possibilità di farne un solo boccone.
Nella stessa regione calabrese, a seconda delle zone, i bocconotti possono variare soprattutto nella farcitura; tradizionalmente, infatti, sembrerebbe che fossero farciti con mostarda d’uva, mentre oggi viene impiegato un composto di cioccolato, mandorle e cannella (esempio tipico di Amantea, un paese della Calabria Tirrenica) o, in una versione più recente, con crema di nocciole.
Ci sono, poi, i bocconotti di Mormanno (in linea d’aria, a meno di 5 km dai confini con la Basilicata e a circa 18 km ai confini con la Campania) che contengono marmellata di ciliegie o di albicocche. Perciò, per il ripieno si può notare la somiglianza con le “buchinotte d’amarene” campane, della ricetta di Ippolito Cavalcanti, o con i fruttoni salentini, che peraltro traggono l’aspetto esteriore (frolla e copertura di cioccolato) dalle ‘varchiglie’ calabresi; questo lascia facilmente immaginare che il fruttone sia un ibrido tra la varchiglia e il bocconotto di Mormanno o quello campano, poiché nella penisola sorrentina, oltre all’amarena viene aggiunto nel ripieno anche la pasta di mandorle, come viene fatto anche nel fruttone salentino.
Va notato, peraltro, che il termine dialettale bucchinotto campano è del tutto simile a quello calabrese. Tutto questo a conferma dei fenomeni di contaminazione o di ibridazione tra località prossime o confinanti tra loro, che si palesano sia nella terminologia sia nelle influenze culturali o nei costumi (tradizioni, ricette, ecc.).
Come è avvenuto per il pasticciotto leccese, la cui paternità in un passato piuttosto recente è stata contesa tra Francesco Alvino di Lecce e un presunto antenato della famiglia Ascalone di Galatina, anche intorno al bocconotto ruotano leggende fantasiose circa la sua discussa paternità. Ve ne è una, ad esempio, legata a una presunta tradizione abruzzese, ambientata nel Settecento. Si narra, infatti, di una domestica che un giorno decise di preparare per il suo padrone un dolce che somigliasse alla tazzina del caffè, per cui preparò un involucro di pasta frolla di forma tonda riempiendola di caffè e cioccolato liquidi. Dopo una prima cottura, avendo notato che il ripieno era ancora troppo liquido, decise di addensarlo, aggiungendo mandorle e tuorli d'uova, e coprendolo, infine, con una sfoglia di pasta frolla. Naturalmente, il suo padrone ne fu entusiasta e la donna chiamò il dolce 'bocconotto'.
La variante del bocconotto abruzzese, infatti, prevede nel ripieno l’impiego di cioccolato, zucchero, tuorli d’uovo mandorle tostate e tritate e cannella. Tipico esempio del genere è il bocconotto di Montorio al Vomano.
L’utilizzo del caffè, oltre al cioccolato, è tipico di altri paesi abruzzesi, come nella provincia di Chieti , in particolare Castel Frentano, località che si accredita i natali del bocconotto abruzzese, e si ritiene che ciò sia dovuto alla storica introduzione di questo ingrediente, in Abruzzo, nel Settecento.
In un modo o nell’altro, il bocconotto è giunto anche in Puglia e nel Salento. A Lecce, ad esempio, intorno alla metà del ‘900 si chiamavano così degli specie pasticciotti alla crema di forma tonda, come riferisce il Rohlfs (cfr. voce: buccunottu, in Vocabolario dei dialetti salentini), anche se a Galatina e a Gallipoli, e forse in qualche altro paese del resto del Salento, da alcuni esercenti almeno negli anni '40 del secolo scorso fu adottata la forma ovale. A Galatina il primo di cui si ha memoria fu, a cavallo degli anni '20 e '30, Luigi ('Gino') Sabella, pasticcere e titolare del Gran Caffè.
In effetti, pur avendo probabilmente le stesse origini, i bocconotti somigliano esteriormente, più dei fruttoni, ai pasticciotti in quanto sono ricoperti da uno strato di pastafrolla (senza la copertura della glassa al cacao o di cioccolato) e oggi nella maggior parte delle ricette regionali contengono la crema.
Per la Puglia, quindi, in parte gli ingredienti, in parte l’aspetto e il nome potrebbero essere stati mutuati da una delle vicine regioni: Basilicata, Calabria o Campania, attraverso i contributi di famiglie o di artigiani. Diversamente, potrebbe essere accaduto tramite dei ricettari importati nel territorio. Ma, certamente, la variante alla crema del bucconotto è del leccese, e potrebbe derivare da Taranto dove la farcitura era a base di ricotta.
Tuttavia, nella storia del pasticciotto salentino, molto probabilmente convergono esperienze e tradizioni distanti fra loro, nel tempo e nello spazio.
Concluderemo, in fine, che certamente una di queste tradizioni deriva da alcuni ricettari antichi, ma d’altra parte ci potrebbe essere stato, a un certo punto, un incontro di una determinata ricetta con l’evoluzione gastronomica dai prodotti di cui abbiamo discorso finora, immaginando che questi possano essere i “bisnonni” o i “trisavoli” del pasticciotto, cioè degli “antenati” che in passato non avevano nulla in comune, ma certamente destinati a tramandare i propri "geni" a un unico “pronipote”.
Oltre che con il generico bocconotto meridionale, il pasticciotto salentino, sia per il nome sia per la ricetta, ha un nesso con quello campano che, come sappiamo, oltre alla crema pasticciera prevede l’impiego dell’amarena.
Questa è la ricetta delle «Bucchinotte d'amarene» di Ippolito Cavalcanti:
«Piglia nu ruotolo de sciore, miezo de zucchero, e miezo de nzogna, dudece rossa d'ova, ni pucurillo de sale, e mbasta buono, stienne chesta pasta co lo laniaturo, ne farraje na pettola doppia quanto a no dudice carrino,e furmarraje li bucchinotte dint'a lle forme, nge miette la mbottunatura d'amarene e po l'auta pasta, accussì farraje li bucchinotti, li farraje cocere a lo furno e po li sformarraje accongiannoli dinto a lo piatto»
Subito dopo la descrizione della ricetta «Pizza doce co la pasta nfrolla», Ippolito Calvalcanti ha suggerito di utilizzare lo stesso metodo e il preparato della farcitura per fare i ‘pasticciotti’: «Co la stessa pasta, e co la stessa mbottunatura può fa pure li pasticciotti» (!)
«Pizza doce co la pasta nfrolla.
Piglia miezo ruotolo de sciore fino (ma chello
de lo speziale) no quarto de zuccaro scuro, e no
quarto de nzogna, no poco poco de sale, sei
rossa d'ova fresche, e no poco de limone o pur-
tuallo grattato, mpasta ogne ncosa ma senza me-
narla tanto ca si nò addeventa tosta, ne farraje
doje mmità de la pasta, schianannola una co lo la-
niaturo; farraje la pettola soccia soccia, nce miette
na sciurata de sciore, e l'arravuoglie chiano chiano
attuorno a lo laniaturo, piglia lo ruoto che t'ab-
besogna, nce faje n'auntata de nzogna, e po nce
miette la pettola de la pasta tagliannone co lo
curtiello tutto chella che soperchia attuorno; e la
mbottunarraje de sceroppata, de janco magnà, o
de recotta com te piace; ncoppa nce miette l'auta
pettola de pasta, e la farraje cocere, o a lu furno,
o co lo tiesto.» (pp. 396, 397)
Questa descrizione è molto importante, perché suggerisce che i pasticciotti (i campani, perlomeno) in origine non contenessero la crema pasticciera e nemmeno le amarene, ma fossero più simili ai bocconotti alla romana o a quelli di Bitonto, prevedendo l’impiego di frutta sciroppata, di ricotta o una base di mandorla ('biancomangiare');
Sappiamo che il ripieno di amarene viene suggerito dal Cavalcanti come ingrediente esclusivo per i bocconotti campani. Non sappiamo se prima o successivamente, e non si sa dove né come né quando all’amarena è stata aggiunta la crema pasticcera, ma questo probabilmente è avvenuto a Napoli, dove tutt’oggi si produce la variante del pasticciotto leccese, con ripieno di crema e amarena. Questa ricetta trova la sua gemella in quella del ‘bocconotto’ di Martina Franca (TA), che oltre a contenere crema pasticciera e amarene, si produce anche nella variante ricotta e pere.
Ad ogni modo, il pasticciotto e il bocconotto sono intimamente connessi tra loro. Hanno lo stesso cofanetto di pasta frolla e il ripieno dell’uno a volte appartiene all’altro, secondo le tradizioni dei luoghi in cui vengono rispettivamente prodotti.
Riporto, a tal proposito, una sequenza di ricette del Cavalcanti di dolci monoporzione e torte, non certamente prese a caso, atte a evidenziare il modo con cui venivano consigliati dei rimandi, dall’una all’altra, onde evitare di incorrere in inutili ripetizioni, per ribadire il concetto che i metodi di preparazione, gli ingredienti o parti di ricette sono serviti a suggerire, in maniera del tutto naturale, la possibilità di reinventare, anche mediante ibridazioni di facile intuizione, nuovi prodotti:
«5. – TARTOLINE (TARTELETTES) ALLA CREMA PASTICCIERA. – Infoderate 12 piccole forme di pasta come s’è detto sopra al n. 3, empitele di buona crema pasticciera fatta come al n. 37 (V. crema), del resto finitele, fatele cuocere e servitele allo stesso modo come al n. 3»
«12. – TORTA ALLA MARMELLATA D’ALBICOCCHE O MELE. – tagliate due rotondi di pasta sfogliata come s’è detto sopra, uno più spesso a forma d’un grosso anello, ponete l’altro rotondo sopra la tortiera, mettetevi della marmellata nel mezzo, allargatela, indi riunite e spianate gli avanzi di pasta e tagliatene tanti nastrini, formale una gratella incrocicchiata sopra la marmellata, umidite d’uovo sbattuto all’intorno del bordo, mettevi sopra il rotondo a forma d’un anello, ben giusto al bordo, indoratela, fatela cuocere, ghiacciatela, e servitela calda come sopra (V. n. 6., Vav. XXVII)»
(attualmente, questa è la ricetta della nostra ‘crostata’ di marmellata)
«13. – TORTA ALLA CREMA PASTICCIERA. – Si fa precisamente come sopra, ma invece di marmellata, si mette una buona crema pasticciera (V. Crema, n. 37), e servitela allo stesso modo.»
«37. – CREMA PASTICCIERA AL LIMONE O CANNELLA. – Fate bollire mezzo litro di fiore di latte, con una scorza di limone sottile o d’arancio, o cannella intiera: mettete 20 gram. di farina bianca con 6 rossi d’uovo entro tegame, mescolate bene, aggiungete un pizzico di sale, versate il fiore di latte tramenando sul fuoco finché incomincia a legarsi, fatela cuocere adagio 10 minuti, sbattendola forte finché resti ben liscia, mischiatele un ettogr. di zucchero bianco pesto, passatela alla stamigna, aggiungete un ettogr. di butirro chiarificato, un ettogr. di marzapani dolci con qualcheduno amaro, sbattetela ben liscia, morbida, e servitevi all’occorrente, e per ripieni di torte, pasticcetti d’Artois, ecc.»
(Peraltro, il riferimento ai “pasticcetti d’Artois” suggerisce l’esistenza di un tortino monoporzione della famiglia del pasticciotto, o qualcosa di simile, di origine francese, ma stranamente la sua ricetta non sembra essere sopravvissuta)
Viene da pensare che la ricetta del pasticciotto possa provenire da ambienti facoltosi, aristocratici o ecclesiastici, dove si era avvezzi alla consumazione di dolci o di prodotti d’arte pasticciera e dove talvolta circolavano ricettari antichi utili alla riproduzione di questi prodotti.
L’antenato più antico del pasticciotto leccese.
Ritornando all'ormai familiare cuoco Bartolomeo Scappi, anch’egli suggerisce la preparazione di una ‘cassa’ fatta di ‘pasticcio’, cioè un preparato denso (poi da infornare), ottenuto dall’impasto di farina, uova, sale e acqua, e destinato a contenere un ripieno, ovvero una specie di crema a base di latte:
«Per fare pasticci di latte in diversi modi. Cap. 42.
Facciasi la cassetta del pasticcio di farina ben setacciata et ova, sale, et acqua, e essa cassetta sia alta porportionata, e lascisi asciugare doppo che è fatta, perche meglio possa resistere alla compoditione, e habbiansi dieci rossi d’ova bottuti, con due bicchieri di latte di capra, o di vacca fresco, sei oncie di zuccaro, due oncie d’acqua rosa mezz’oncia di cannella pista, mescolato ogni cosa insieme con un poco d’uva passa, e sale a sufficienza: mettasi la cassetta vota nel forno, et subito si ponga in essa tanta compositione che cuopra il fondo un dito; e come essa compositione è fermata, se ne ponga dell’altra con un poco di butiro liquefatta e cosi si farà più volte sino a tanto che si vederà che la compositione cresca sopra la cassa un dito, et all’hora sarà cottà; cavisi, e si dia il colore alla cassa e servasi caldo con zuccaro et acqua rosa sopra: si potrà fare anchora con il rosso, e chiaro dell’ovo, ma non si conserverà cosi soda la compositione, come da solo con il rosso; A un altro modo si potrà fare; fatta che è la cassetta del modo sopradetto, piglisi della tartara, fatta come si dice in questo a c. 86. e della salviata, o minestra Ongaresca fatta come dice al c. 168. nel libro delle vivande, e scolato che sarà il siero d’esse compositioni si mescoli con esse ova crude, e più zuccaro. et un poco d’agresto, et uva passa. Empiasi d’essa compositione la cassetta, e si faccia cuocere nel forno, e cotta che sarà si serva calda con zuccaro, e folignata sopra. Se si vorrà magnare la pasta della cassetta insieme con la compositione pongasi butiro, o strutto in essa quando si fà, ma qualunque volta che la pasta della cassa sarà fatta con grasso, sentendo il caldo nel forno, facilmente casca, e però s’impasta solo con l’ova aqua fredda, e sale, perche quando tal pasta sente il caldo viene più soda e conserva meglio la compositione, che si pone dentro.»
Spesso troviamo utilizzata da Bartolomeo Scappi anche l’espressione «pasticcio in cassa». In pratica si tratta di uno strato di impasto distribuito sulle pareti interne di una forma (‘cassa’) di metallo o, in seguito, anche di carta. La «cassetta del pasticcio» intende, invece, l’impasto preparato a forma di ‘cassa’. Altre volte, il termine ‘pasticcio’ viene inteso come un preparato che comprende insieme sia l’involucro esterno sia il suo contenuto. Il tutto, noterete, sembra già suggerire l’idea del ‘pasticciotto’, preparato con l’ausilio della barchetta di rame (‘barchiglia’), che Scappi chiama ‘cassa’ o ‘vaso’, come nella ricetta chiave che vedremo tra breve.
Ritengo plausibile, dunque, che le formelle di rame fossero già da tempo utilizzate per agevolare la preparazione di questi prodotti monoporzione e che, come si è mutuato il nome ‘varchiglia’ del dolce calabrese, per essere attribuito all’involucro di pasta frolla e, conseguentemente, alla cd. 'barchiglia' di rame stagnata, che è l'accessorio che ne agevola tutt’oggi la realizzazione, così potrebbe essere avvenuto che le espressioni «cassetta del pasticcio» o «pasticcio in cassa» utilizzate da Bartolomeo Scappi possano aver influito nella coniazione dei vezzeggiativi ‘pasticcetto’, già utilizzato dallo stesso Scappi, e ‘pasticciotto’ adottato in altri ricettari successivi, come vedremo in seguito.
Bartolomeo Scappi, infatti, ha utilizzato diverse volte il termine pasticcerro, come ad esempio nella ricetta: «Pasticcetti sfogliati, pieni di bianco magnare». Ed è interessante anche quella nella quale usa lo stesso termine per indicare porzionatura di un pasticcio, ossia: «Pasticcetti di mel’appie di cinque per pasticcio».
Ma la più antica attestazione del termine ‘pasticciotto’ di cui abbiamo notizia, risale al 1538 e si trova nell’importante carteggio del celebre letterato marchigiano Annibal Caro (1507-1566), pubblicato in diversi libri, di cui uno dei primi nel 1603 (De le lettere familiari del commendatore Annibale Caro, Volume primo, di nuovo con diligenza ristampate, e da notabilissimi errori ementate, in Venetia, appresso Paolo Ugolino, MDCIII). In esso, infatti, vi è una lettera (30 aprile 1538) indirizzata a Silvestro da Prato alla fine della quale viene menzionato, per l’appunto, il termine pasticciotto: «Fatela distendere al nostro Comico, perché sia a ordine alla nostra tornata. Intanto, venendo egli a Roma prima di noi, buttagliene in canna qualche pasticciotto, come solete, per rintuzzarlo quando vi dà la baja della vostra Tita. Di Velletri, alli 30. d’Aprile. 1538.»
Ma se il metodo della preparazione monoporzione del bocconotto e la stessa ricetta è strettamente connessa, nell’evoluzione di questi prodotti specifici, all’invenzione del pasticciotto leccese, un’altra ricetta antica di Bartolomeo Scappi sembra addirittura esserne il prototipo.
Quindi, veniamo finalmente a quella ricetta che, secondo me, può essere vista come l’antenato del pasticciotto leccese.
Nel capitolo 65., che abbiamo già menzionato, a proposito della derivazione francese del termine crema (e probabilmente anche della ricetta), dal titolo: «Per fare pasticci in diversi modi di composizione di crema.», Bartolomeo Scappi suggerisce di creare una specie ‘cassetta’ da un impasto (‘pasticcio’) da formare «in un vaso di terra o di rame stagnato», cioè una teglia di dimensioni non ben definite, ma che ci riporta ancora una volta all’idea della cosiddetta ‘barchiglia’, aggiungendo: «Habbiasi apparecchiata la cassetta del pasticcio sfogliata, e non sfogliata, e s'empia d'essa compositione (di crema, N.d.r.), e facciasi cuocere al forno, e si serva caldo». Suggerisce, altresì, di poter riempire con la medesima crema anche «corone Imperiali, e Reali havendo poco prima cotte le corone nel forno».
L’unica cosa che manca in questa ricetta, per essere del tutto assimilabile a quella del pasticciotto, o della torta pasticciotto, è la descrizione di come eventualmente ricoprire la ‘cassetta del pasticcio’ con una sfoglia una volta farcito, cosa che farà invece Ippolito Cavalcanti nella sua Cucina Teorico-pratica (Napoli, 1839), precisamente nella ricetta «Pizza doce co la pasta nfrolla», che lui stesso associa al metodo per fare i pasticciotti, dicendo: «ncoppa nce miette l auta pettola de pasta e la farraje cocere».
Per ‘pettola’, termine usato anche da Scappi, si intendeva una piccola porzione sfoglia o di pasta appiattita, un termine che è finito anch’esso per identificare un’altra ricetta tipica salentina (le 'pittule'), pugliese ('pettole', già nel tarantino e nel brindisino) e di altre regioni meridionali, ma con varianti nelle ricette che stanno a dimostrare che la ‘tradizione’ non è un termine fisso di riferimento, ma un percorso evolutivo destinato ad approdare in luoghi diversi e a subirne, di conseguenza, le influenze.
Comunque, lo stesso Scappi, oltre a fornire, come suo solito, per la stessa ricetta una serie di suggerimenti pratici, lascia sempre intendere che non ci sono limiti alla creatività e alla libertà di sistemare a piacere i preparati base della ricetta medesima, come anche variare alcuni ingredienti, la forma o i metodi di preparazio.
Ed infatti, al termine della ricetta «Per fare pasticci in diversi modi di composizione di crema» aggiunge: «e ancora d’essa compositione se ne può empire diverse armi tirate a mano, e altri armi fatte a forma», cioè preparate manualmente o sistemate nelle forme (armi) di rame stagnato della forma prevista.
Testo:
«La crema è vocabolo Francese, et è fatta di fior di farina, latte, et ova; per tanto
piglisi una foglietta di latte di capra, e di vacca fresco, e si mescoli con quattro on-
cie di zuccaro, et quattro oncie di butiro fresco, et un poco di acqua rosa, et sale
a bastanza, et si metta al fuoco dentro nella cazzuola, et come comincia a bollire
habbisi un’altra mezza foglietta di latte con oncie quattro di fior di farina, et sei
ova battute, et ogni cosa si mescoli insieme con essa farina, et buttisi nella cazzuo-
la, mescolando sino a tanto che pigli corpo, poi cavisi, et pongasi in setaccio
chiaro, et lascisi scolare, et rimettasi in un vaso di terra, o di rame stagnato, con
un poco più zuccaro, et acqua rosa, et se si gli vorrà giungere rossi d’ova crudi, sarà
in arbitrio. Habbiasi apparecchiata la cassetta del pasticcio sfogliata, et non sfo-
gliata, et s’empia d’essa compositione, et facciasi cuocere al forno, et si serva caldo.
D’essa compositione se ne può fare tutti quei lavorieri che si fanno del biancomagnare,
et se ne può empir corone Imperiali, e Reali havendo poco prima cotte le corone
nel forno, et esse corone s’empiano più per bellezza de conviti, che per altro, et piene che
sono se gli dà una caldetta in forno, et si servono calde, et fredde a beneplacito
con zuccaro sopra, et anchora d’essa compositione se ne può empire diverse armi
tirate a mano, et altri armi fatte a forma».
[Opera di Bartolomeo Scappi, Larte Et Prudenza Dun Maestro Cuoco, Libro Quinto, Cap. 65., ff. 237r/v, ovvero anche al Cap. 45 dell'edizione del 22/03/1570, ff. 293r/v]
Galatina, 18 ottobre 2015