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2. Gli antenati delle nostre tradizioni gastronomiche.

di Alessandro Massaro [© «Tutti i diritti riservati»]

 

Veritas filia temporis

 

Nel tempo, una grande varietà di conoscenze, dovute anche al commercio e ai continui influssi culturali di altri popoli, sono confluite nelle nostre ‘tradizioni’, contribuendo all’evoluzione gastronomica (noi tratteremo in particolare l’arte dolciaria) in Europa e nel nostro Paese.

Ciò è avvenuto certamente anche con l’introduzione di nuovi alimenti da paesi stranieri (si pensi alle spezie provenienti dall’India, ai prodotti e alle spezie della cucina araba, alla canna da zucchero introdotta in Europa dagli stessi arabi, agli alimenti come il cacao, il caffè, la vaniglia introdotti a seguito della scoperta dell’America, ecc.), l’apporto di nuove tecniche di lavorazione e l’impiego di nuovi strumenti per la preparazione delle vivande.

 

Tutto questo si è potuto realizzare anche e soprattutto per le esigenze delle classi sociali più facoltose, che si sono potute permettere e hanno preteso un costante approvvigionamento di generi alimentari, il confezionamento di cibi elaborati (a volte ordinati in quantità notevoli, in occasione di sontuosi banchetti cerimoniali) e, chiaramente, personale specializzato a quest’ultimo scopo, nonché istruito, cioè in grado di documentarsi e annotare i propri successi, onde consentirne la ripetitività.

 

La storia, quindi, ci tramanda le conoscenze di cuochi straordinari, i capostipiti dell’arte culinaria, molti dei quali furono al servizio delle corti monarchiche, aristocratiche o di alti esponenti del clero. La loro celebrità è dovuta principalmente al fatto di aver ereditato conoscenze, edite e inedite, sperimentato nuove tecniche e procedimenti di preparazione delle pietanze, mediante originali associazioni e combinazioni di ingredienti, fissando il tutto in opere straordinarie di letteratura: i ricettari, che possono a gran voce ritenersi parte integrante di un patrimonio comune di conoscenze e della nostra cultura in generale.

 

L’invenzione della stampa, tuttavia, non ha contribuito immediatamente alla divulgazione popolare di tali conoscenze, certamente anche per una questione di “possibilità” economiche, nonché per la lontananza dalle logiche consumistiche del secolo scorso. Tuttavia, i ricettari antichi hanno fornito un concreto contribuito alla diffusione, in ambito nazionale e talvolta internazionale, delle tradizioni gastronomiche delle varie regioni italiane.

Per la nascita, in Francia, della cosiddetta ‘cucina borghese’ bisognerà attendere, invece, la prima metà del Settecento (tra il 1715 e il 1750), con l'emergere della nuova classe borghese. Ricettari più “economici” e comunque più alla portata di tutti si realizzeranno a cavallo tra il XIX e il XX secolo.

Si può notare come i protagonisti dell’evoluzione gastronomica, testimoniata dai ricettari pervenutici, sono principalmente uomini.

 

Completamente sconosciuti, invece, i nomi di possibili inventrici di ricette culinarie, che potrebbero esserci state, ad esempio in ambito ecclesiastico dove spesso, si ha notizia, erano le monache a specializzarsi nella preparazione di alcuni cibi, ad esempio i dolci, realizzati per i vizi di gola degli alti prelati. Possiamo citare alcuni esempi di tradizioni che attribuiscono ricette di dolci a delle monache. Ad esempio, la ‘varchiglia’ calabrese è stata attribuita alle monache carmelitane di Cosenza che la producevano per i vescovi. E ancora, la ricetta della zeppola di San Giuseppe alcuni la attribuiscono alle monache della Croce di Lucca o quelle dello Splendore. Anche una tipica ‘pasta’, più di recente prodotta in provincia di Lecce è chiamata ‘monachina’ (fatta di pasta sfoglia e ripiena di crema pasticcera o nutella o entrambe) e si dice che fosse stata inventata o comunque venisse prodotta da giovani monache. Poi abbiamo le ‘tette delle monache’ di Altamura, che si producono anche ella vicina Basilicata; si tratta di dolci ripieni di crema diplomatica (o chantilly all’italiana) noti anche come ‘sospiri’ o ‘sospiri di monache’, ‘sospiri di Puglia’, ‘sospiri di Bisceglie’, ecc., oppure ‘sise delle suore’ o ‘dolci della sposa’; per la maggior parte di questi nomi, si evince un chiaro riferimento alla loro particolare forma, simile al seno femminile.

Ad ogni modo, anche osservando le varianti onomastiche di questi dolci, oltre ad altre differenze sostanziali, a seconda del luogo in cui sono prodotti, possiamo dire che la loro origine, secondo tradizione, non è comprovata, perciò poco attendibile.

Per quanto riguarda i ricettari veri e propri, quelli scritti da donne si collocano, nella storia, solo all’inizio del ‘900, come, per fare solo un paio di esempi, “Il talismano della felicità” (1927) di Ada Boni, o “Il nuovo ricettario domestico” (1935) di Lidia Morelli.

 

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