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5. La strana terminologia utilizzata nelle ricette antiche.

di Alessandro Massaro [© «Tutti i diritti riservati»]

Veritas filia temporis

 

Il linguaggio dei ricettari antichi è stato ampiamente studiato, anche in tempi recenti. Elencare tutti gli studiosi sarebbe cosa piuttosto ardua, perciò ne verranno indicati solo alcuni, che sono stati utili a questa breve introduzione, nei riferimenti bibliografici in basso.

Per introdurre quella che a mio avviso si può considerare una delle ricette più antiche (che vedremo in seguito), che testimoniano l’esistenza di una serie di metodi (che comprendono: ingredienti, procedimenti, strumenti di lavoro) ispiratori, che precorrono la genesi del 'pasticciotto leccese', ritengo utile accennare alla terminologia dei ricettari antichi, partendo dal più ricco di spunti gastronomici, cioè quello di Bartolomeo Scappi: Opera - L'arte et prudenza d'un maestro cuoco (stamp. Tramezzino, Venezia, 1570; ristampe: 1605, 1610. 1622. 1643).

Leggendo i ricettari antichi, si farà presto a comprendere che molti di quei termini che per noi sono di uso comune in passato erano utilizzati in modo diverso.

In effetti, dalle testimonianze a noi note, osserviamo come la letteratura gastronomica, già dall’età rinascimentale, ha iniziato a muoversi in una dimensione interregionale e ciò ha finito per influenzare, nel tempo, il lessico italiano.

Questo è potuto avvenire anche attraverso la circolazione dei prodotti, delle tecniche, delle tradizioni alimentari locali, come dai rapporti di scambio tra il contado e le realtà urbane, che da esso traevano alimento. Insomma, un ampio scambio di conoscenze, spesso veicolate da gente comune come contadini, artigiani, mercanti, fino a giungere ai magnati e ai nobili e confluite negli scritti più celebri della storia dell’arte culinaria.

Dunque, i ricettari testimoniano da una parte un arricchimento linguistico e una larga condivisione di termini (gli storici contemporanei parlano di koinè gastronomica ovvero di una lingua comune), muovendosi in una dimensione pluriregionale e influenzando in una certa misura la tradizione italiana, secondo un fenomeno che oggi definiremmo di portata ‘globale’. Talvolta, infatti, alcuni autori di questi capolavori di letteratura culinaria hanno prestato attenzione al confronto delle diverse tradizioni locali per poi giungere a una sintesi delle stesse.

Viceversa, le varie tradizioni, che una volta raccolte si sono andate diffondendo sul territorio unitamente alla terminologia, rapportandosi con gli usi, le consuetudini, le culture e i linguaggi specifici hanno finito per declinare in dimensioni ‘locali’.

Tutto questo deve far riflettere sul fatto che le 'tradizioni' raramente possono essere considerate una questione propriamente originale di un luogo. Molto più spesso, invece, localmente sono il frutto di un’evoluzione sensibilmente connessa agli scambi di conoscenze, ovvero talvolta a un processo di fusione delle stesse, altre volte alla derivazione o interpretazione di conoscenze acquisite.

Perciò si possono notare, muovendosi anche in ambito regionale, fenomeni di ibridazione nel lessico comee nelle pronunce dialettali. Allo stesso modo si possono osservare varianti e ibridazioni nelle ricette sia tra paesi vicini sia, talvolta, tra luoghi lontani.

Come abbiamo accennato, ciò è avvenuto anche per mezzo dei ricettari più famosi, alcuni dei quali hanno tenuto a unificare le conoscenze e le tradizioni di luoghi distanti tra loro. Per fare un esempio interessante: l’Opera (Venezia, 1570) di Bartolomeo Scappi, nella quale il 'maestro Cuoco' ha tenuto a rilevare l’esistenza di geosinonimi, avendo basato lo scritto su tre città principali: Milano, Roma e Napoli. Un autore, lo Scappi, che vedremo ricorrere spesso anche in questa pagina, in quanto ha influito molto nel lessico come nelle ricette anche nelle tradizioni culinarie salentine.

Non occorre che mi dilunghi ancora oltre su questo argomento, che vuole essere solo introduttivo per comprendere l’origine e l’utilizzo che si faceva nei ricettari di alcuni termini di uso comune ai nostri tempi. Per fare alcuni esempi, la ‘pizza’ che conosciamo oggi, che consideriamo una pietanza ‘salata’(per semplificare), a Napoli in passato stava ad indicare una specie di torta dolce («per fare torta con diverse materie, da Napoletani detta pizza. Cap. 121», in Bartolomeo Scappi, Opera cit., c. 250r). Peraltro, avevamo già incontrato la più recente ricetta di Ippolito Cavalcanti intitolata «Pizza doce co la pasta nfrolla», in “Cucina Teorico-pratica”, Napoli, 1839.

Viceversa, come testimoniato dai ricettari antichi, generalmente veniva chiamata ‘torta’  uno sformato di preparati ‘salati’ a base di verdure, carni, cacciagione e quant’altro.

Infatti, in quei ricettari troviamo ricette intitolate: «turtam parmiscianam» (“Anonimo Meridionale”, 1238), o «torta di sangue di porco...», «torta di cervella...», «torta reale di polpe di fagiani, e starne», ecc..

Quella che è «... da Napoletani detta pizza di bocca di Dama», invece, non ha nulla a che vedere con il dolce omonimo (la ‘bocca di dama’) che conosciamo oggi, bensì si tratta di «torta reale di piccioni...»

Il termine ‘pasticcio’ poteva indicare, genericamente, o un impasto di ingredienti generalmente destinato a una base (da predisporsi ad esempio ad involucro) utile a contenere una serie di ingredienti a strati o un composto più fluido ovvero, in gergo, una ‘compositione’, oppure il prodotto finito costituito dalla base e dalla 'compositione' insieme.

Con ‘pasticcio’ si potevano intendere, indifferentemente, diversi tipi di preparati, salati o dolci. D’altronde, esiste anche per il bocconotto la versione salata, che varia sia nel ripieno che nell'involucro: la pasta sfoglia sostituisce la pasta frolla e, nel ripieno, anziché il cioccolato e le mandorle si usa un impasto di funghi, pezzetti di pollo, animelle e tartufo.

Questo termine, quindi, a mio avviso, potrebbe essere all'origine del nome 'pasticciotto', cioè un "vezzeggiativo" di 'pasticcio'.

 

Nel ricettario di Bartolomeo Scappi, insomma, si trovano termini a noi noti, ma spesso con significati differenti, dimostrando, ancora una volta, come le nostre tradizioni siano frutto di un percorso evolutivo gastronomico, per mezzo del quale si sono tramandate ricette di prodotti che talvolta hanno cambiato nome, mentre altre volte dei nomi sono stati mutuati per essere adattati ad altri prodotti o ricette.

Quindi, oltre alla ‘pizza’, che è un termine già documentato nel 997 (in un contratto di locazione di un mulino sul fiume Garigliano, conservato nell’archivio del duomo di Gaeta), Bartolomeo Scappi menziona la ‘crostata’, il ‘pasticcio’ o la ‘torta’, che vengono utilizzati indifferentemente per preparati (sformati o ‘compositioni’) salati o dolci. Nelle opere di Scappi si trovano anche nomi o termini come ‘mostaccioli’, ‘pettole’ (mutuato per le nostre tradizionali ‘pittule’, o ‘pettole’ nel tarantino), la ‘sfogliatella’ e talvolta ritrovano altri termini già utilizzati da Messi Sbugo (1549) come i ‘truffoli’ o ‘struffoli’, la ‘sfogliata’, il ‘torrone’, ecc..

 

La « Pizza alla napoletana».

Una delle ricette che reputo tra le più interessanti, per questo argomento, è quella della “Pizza alla napoletana”, che sembra segnare un punto di passaggio storico di significati tra i nomi utilizzati in passato e quelli oggi a noi noti .

Non si tratta, naturalmente, della pizza che conosciamo oggi, fatta con farina, olio e sale che poi va stesa, condita con salsa di pomodoro e cotta in un forno a legna, bensì di una specie di 'torta' composta da un fondo di frolla e poi guarnita con dei composti dolci, tra cui la crema.

La «Pizza alla napoletana», si trova sia nel più antico e celebre ricettario di Bartolomeo Scappi, sia nel più recente ricettario di Pellegrino Artusi, anche se variano alcuni ingredienti.

Quella di Bartolomeo Scappi, non si chiama propriamente “Pizza alla napoletana”; la sua ricetta si intitola: «Per fate torta con diverse materie, da Napoletani detta pizza. Cap. 121.». Per farla breve, è ottenuta pestando insieme: mandorle, fichi, datteri, pinoli, zibibbo e impastando il tutto assieme a dell'acqua rosa; dopo di che andrebbero aggiunti rossi d'uovo, zucchero, cannella e «mostaccioli Napoletani muschiati fatti in polvere» e fare una 'compositione' (impasto o crema) con altra acqua rosa e, infine, aggiungere del burro fresco, per poi sistemare il tutto in una tortiera all'interno della quale si è preventivamente steso uno «sfoglio di pasta reale» (in maniera tale da non fare un involucro, o «tortiglione», troppo spesso) e infine, senza ricoprire la 'compositione', far cuocere al forno. Lo stesso cuoco suggerisce la possibilità di farcirla diversamente («in essa pizza si può mettere d’ogni sorte condite.»).

 

L’Artusi, invece, fornisce questa ricetta:

«609. PIZZA ALLA NAPOLETANA

  • Pasta frolla metà della ricetta A del n. 589, oppure l'intera ricetta B dello stesso numero.

  • Ricotta, grammi 150.

  • Mandorle dolci con tre amare, grammi 70.

  • Zucchero, grammi 50.

  • Farina, grammi 20

  • Uova, n. 1 e un rosso.

  • Odore di scorza di limone o di vainiglia.

  • Latte, mezzo bicchiere.

Fate una crema col latte, collo zucchero, colla farina, con l'uovo intero sopraindicato e quando è cotta ed ancor bollente aggiungete il rosso e datele l'odore. Unite quindi alla crema la ricotta e le mandorle sbucciate e pestate fini. Mescolate il tutto e riempite con questo composto la pasta frolla disposta a guisa di torta, e cioè fra due sfoglie della medesima ornata di sopra e dorata col rosso d'uovo. S'intende già che dev'essere cotta in forno, servita fredda e spolverizzata di zucchero a velo. A me sembra che questo riesca un dolce di gusto squisito.»

 Tale ricetta appare come l’antesignana sia della ‘Pastiera napoletana’ sia (secondo alcuni) di certi tipi di gelato (ripenso alla 'Mafalda' o allo 'spumone'), ma in qualche modo potrebbe far venire in mente, ad esempio per la presenza della ricotta, anche il bocconotto romano o quello di Bitonto oppure, sottraendo dal ripieno alcuni ingredienti (come le mandorle e la ricotta e le spezie), la ‘torta pasticciotto’ (leccese).

 

Riferimenti bibliografici:

Giovanna FROSINI, La cucina degli italiani. Tradizione e lingua dall’Italia al mondo, estratto (pp. 85-107) in Marco BIFFI-Vittorio COLETTI-Paolo D’ACHILLE-Giovanna FROSINI-Paola MANNI-Giada MATTARUCCO, Italiano per il mondo. Banca, commerci, cultura, arti, tradizioni, a cura di Giada MATTARUCCO, Accademia della Crusca, Firenze, 2012. (disp. in pdf)

Giovanna FROSINI, La lingua delle ricette. (disp. in pdf)

Parole da gustare. Consuetudini alimentari e saperi linguistici. Atti del Convegno «Di mestiere faccio il linguista. Percorsi di ricerca» (Palermo-Castelbuono, 4-6 maggio 2006), a cura di Marina CASTIGLIONE, Giuliano RIZZO, Centro di studi filologici e linguistici siciliani, Palermo, 2007.

Claudio BENPORAT, Storia della gastronomia italiana, Milano, Mursia, 1990.

Bartolomeo SCAPPI, L'Opera di Bartolomeo Scappi - Larte et Prudenza dun Maestro Cuoco, 1570.

Pellegrino ARTUSI, La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene, Einaudi Edizioni, Torino, 1994. (disp. in pdf)

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