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1. Il mito dell'originalità della tradizione pasticciera salentina.

di Alessandro Massaro [© «Tutti i diritti riservati»]

 

Veritas filia temporis

 

La storia dell'arte pasticciera salentina non è mai stata ben rappresentata e tuttavia essa vanta una notevole varietà di prodotti di qualità, per l’orgoglio e la delizia dei salentini, rimanendo indiscutibilmente una delle peculiarità locali che attraggono, per curiosità o per esperienza, turisti sia italiani che stranieri. Tengo a ricordare che ciò è reso possibile grazie all’esperienza e la laboriosità dei nostri numerosi artigiani, i quali esercitano l’arte pasticciera non solo come mestiere, ma come passione, fatta di grandi sacrifici e di dedizione, finendo talvolta per essere tramandata ai propri figli.

Non ho la pretesa di servire una storia esaustiva della pasticceria salentina. La conoscenza storica è continuamente soggetta a nuove scoperte.

Per soddisfare la curiosità dei lettori che si avventurassero in questo sito e per fornire degli spunti di indagine e approfondimenti ai più intraprendenti, ho inteso comunque fissare un insieme di conoscenze inerenti la storia di alcuni prodotti della pasticceria salentina e in particolare sulla storia delle pasticcerie e caffetterie di Lecce e di Galatina.

Si tratta di informazioni che sono frutto delle mie ricerche, oltre ad alcune ipotesi personali, che ho il piacere di condividere e che intendo, ad ogni modo, tutelare nel loro insieme, invocando i diritti di cui alle note introduttive di questo sito.

Tra i paesi della provincia di Lecce, Galatina ha certamente la fama e il merito di una pregevole produzione pasticcera e dolciaria, segnatamente per i cosiddetti 'prodotti tipici’ salentini, ma anche per alcune ricette originali, non brevettate, dovute all’estro creativo di alcuni artigiani locali; altri articoli rientrano invece nella categoria dei 'prodotti agroalimentari tradizionali (PAT).

 

A Galatina, tra i ‘prodotti tipici’ locali vengono annoverati alcuni gelati come ad esempio la celebre Mafalda, che deriva dall'eccellente ricetta dello spumone introdotta dal maestro Rafelino Bello, e che fu ideata da Antonio (‘Uccio’) Matteo dopo il trasferimento (1975) di sede del suo Mini Bar in via Principessa Mafalda. Lo spumone era consumato dai salentini già negli anni ’50 del secolo scorso, le cui origini, tuttavia, si attribuiscono stranamente agli abitanti di Casamassima, in provincia di Bari (cfr. la voce ‘Spumone’ in Wikipedia).

La pasta di mandorla, invece, ha una storia più antica in Galatina, forse connessa a Corigliano d’Otranto, stando ad alcuni indizi rintracciabili nel Carteggio ottocentesco dei Siciliani. Attualmente è ancora molto utilizzata sia per i prodotti tradizionali legati alle ricorrenze religiose (il tronco, l’agnello, il pesce), sia per una notevole varietà di articoli di pasticceria normalmente venduti al banco, come il fruttone, di divini amori, la Sibilla, invenzione del maestro Fedele Uggenti, e diverse paste a base di frolla, dolcetti e pasticcini di vari gusti e composizioni. Nel Novecento, le conoscenze per la lavorazione della pasta di mandorla si sono arricchite grazie ai contributi di alcuni pasticcieri siciliani, che hanno trasmesso il proprio sapere a due importanti maestri galatinesi: Luigi (‘Gino’) Sabella (cl. 1909) ed Enrico Surdo (cl. 1936). Da ciò derivano le riproduzioni di agnelli, pesci, frutta e ortaggi di pasta di mandorla fatti con apposite forme di gesso dal maestro Sabella o realizzati a mano dal maestro Surdo esperto nella lavorazione della celebre frutta martorana.

Più in generale, nella provincia di Lecce si vendono con costanza prodotti tipici lavorati artigianalmente, mentre la produzione e lo smercio di altri prodotti tipici seguono le tradizioni legate alle ricorrenze religiose e quindi alle fasi stagionali. Basti pensare alla zeppola che viene consumata il 19 marzo, festività legata a S. Giuseppe; peraltro, non a caso, del tutto simile a quella napoletana. I mostaccioli (a Gallipoli, detti anche scagliozzi), i porceddhruzzi e le carteddhrate, sono piuttosto dei prodotti natalizi e certamente tra i più antichi.

Ci sono poi delle ‘paste’ non propriamente ritenute nostrane, che vengono prodotte e vendute specialmente la domenica o durante altri giorni festivi, che contribuiscono ad arricchire i banconi e a soddisfare i desideri di tutti, come il cannolo alla crema, la parigina, il bigné, le code d’aragosta, anche con ripieni o finiture differenti e nelle varianti mignon (dal francese mignone).

A Galatina, accanto a questi prodotti troviamo l’africano, che appare come una variante della meringa (franc. ‘meringue’), ma che come composto prevalente utilizza il rosso d’uovo piuttosto che l’albume, ossia lo zabaglione,[1] e una certa varietà di prodotti tipici locali di pasta di mandorla, che variano in gusti e forme a seconda del laboratorio in cui vengono preparati.

Se ci si reca a un bar-pasticceria per la colazione, in qualsiasi giorno, non possono mancare al banco alcune tipologie di ‘paste’ tipiche, come ad esempio il krapfen, il cornetto, il fruttone e il pasticciotto.

A dispetto dei prodotti più allettanti e tipici della nostra tradizione, alcuni esercenti hanno tentato di introdurre delle novità, per i leccesi, ovvero prodotti atipici in quanto di provenienza extraregionale e smerciati da bar abbinati al altre attività di catene commerciali settentrionali e, comunque, obbiettivamente, un po’ meno apprezzati dai cultori della gastronomia nostrana. Basti pensare a vari tipi di ciambelle, al muffin, o al bombolone, una variante del nord Italia della krapfen, ecc.. Il krapfen tipico di Galatina, invece, ha una forma del tutto originale, poiché deriva dal metodo per la preparazione dei calzoni (panzerotti, in barese), che è stato adottato negli anni '60 dai pasticcieri, quando nei laboratori i maestri e i rispettivi operai si impegnavano a produrre sia articoli di pasticceria che di rosticceria.
In realtà, le ciambelle vengono preparate con lo stesso impasto lievitato del  krapfen, secondo la ricetta importata da Rafelino negli anni ’60 dall’Austria, insieme al muffin al cornetto (croissant) e del cannolo (schaumrollen) di pasta sfoglia, che in Galatina hanno incontrato la loro naturale farcitura di crema pasticciera, già giornalmente impiegata per la produzione dei pasticciotti.

Non si può negare che, affianco a una produzione pasticciera artigianale d’eccellenza, molto sviluppata ed affermata a Galatina, vi siano prodotti preparati a livello industriale, che vengono congelati e poi sistematicamente distribuiti in molti bar-caffetterie della provincia, ma di qualità decisamente mediocre, se paragonati alla produzione artigianale.

Naturalmente, per molti e per i meno intenditori, tali prodotti consumati caldi, come viene spesso consigliato ad esempio per il pasticciotto, appaiono buoni, venendo scambiati per “originali”, ma basterebbe porli subito a confronto con dei prodotti artigianali per notare l’enorme differenza di sapore e di qualità. La prova del nove è quella di provare ad assaggiare il medesimo prodotto a freddo, cioè a temperatura ambiente, o riscaldato il giorno dopo, dopo alcune ore di riposo in frigorifero, e la differenza, in termini di qualità, di fragranza, di integrità e di gusto si può notare anche tra un prodotto artigianale e l’altro: se il prodotto è fatto a regola d’arte, non si dovrebbe avvertire alcuna differenza con quello sfornato in giornata.

Per tutelare gli artigiani specializzati e salvaguardare l’immagine del prodotto “originale”, talvolta si è ricorso a rilevarne la specificità. Emblematico è l’esempio del cosiddetto pasticciotto leccese, il cui successo si è attribuito, sommariamente, al merito della tradizione agroalimentare tipica salentina, con una operazione di marketing piuttosto non curante della vera storia del nostro territorio. Una storia che, secondo me, non può essere vista come una questione circoscritta ai confini geografici della provincia di Lecce, ma che, in una prospettiva a ritroso, fa certamente parte della più ampia storia dell’antico Regno di Napoli, prima ancora del Regno delle due Sicilie e via discorrendo.

Non dovrete scandalizzarvi, quindi, se vi dico che nelle tradizioni dolciarie leccesi sono confluite le conoscenze francesi (dalla pasta frolla alle creme) e ricette di origine lombarda, piemontese, romagnola, romana e napoletana, codificate in ricettari di cui normalmente non si sospetta nemmeno l’esistenza.

Nel tempo, ovviamente, con la diffusione di alcuni ricettari di respiro interregionale, in ogni regione e in alcune località in particolare, si sono adottate determinate ricette alle quali poi è seguita un’evoluzione, talvolta suggerita dalla disponibilità di determinate materie prime e spesso anche da una base di conoscenze proprie del posto, e quindi una tradizione. Anche nella pasticceria salentina si riscontrano delle particolarità nei procedimenti e nell’impiego di ingredienti dovute alla graduale introduzione di determinate materie prime. Ad esempio, i dolci più antichi continuano a proporsi con l’impiego di determinati tipi di dolcificanti, perciò si tramandano dolci che ancora impiegano il miele o il mosto d’uva; successivamente sono stati introdotti lo zucchero di canna e poi lo zucchero da barbabietola. Un altro esempio lo si è fatto con il pasticciotto, di cui ci occuperemo meglio più avanti, che notoriamente impiega non già il burro (‘butiro’, nei ricettari antichi), ma lo strutto (‘sugna’), che tuttavia non trova le proprie ragioni tout court nel reperimento di questo tipo di grasso del maiale, ai tempi in cui è stata elaborata nel Salento la ricetta della pasta frolla, bensì nei suggerimenti di alcuni ricettari antichi, l'ultimo dei quali, in particolare, "Cucina Teorico pratica" di Ippolito Cavalcanti. Diversamente e in alternativa allo strutto, si può impiegare la margarina vegetale, maggiormente simile ad esso come proprietà fisiche e come materia adatta a questo tipo di lavorazione nel sud-Italia, resistendo meglio alle alte temperature tipiche del clima salentino.

​Non può essere considerato un caso, quindi, che ci siano delle strette somiglianze tra alcuni prodotti leccesi e quelli napoletani o siciliani.

Diremo, dunque, che i nostri ‘mustaccioli’ [2] hanno i loro antenati nelle tradizioni napoletane; perfino i nostri ‘porceddhuzzi’ (dai truffoli/struffoli napoletani), come molte delle più antiche tradizioni poi confluite nei ricettari cinquecenteschi di Bartolomeo Scappi. Anche la ‘zeppola’ della festa di San Giuseppe avrebbe una derivazione napoletana [3]. Andrebbe sottolineato, quindi, che quando si parla di ‘tradizione’ bisogna intendere non la ricetta tradizionale, che tuttavia potrebbe conservare, quasi invariate, determinate peculiarità originali, ma un intero percorso evolutivo gastronomico o dei precisi momenti dello stesso, che spesso non è facile circostanziare, nei luoghi e nei tempi.

Non è nemmeno un caso che esista una variante atranese, piuttosto recente, del pasticciotto leccese, dove all’amarena viene abbinata la crema pasticciera; se non debba considerarsi discendente direttamente dalle bucchinotte all’amarena di Ippolito Cavalcanti. Può sorgere il sospetto che questa ricetta napoletana ottocentesca possa in realtà derivare dal pasticciotto leccese, poiché quest’ultimo è menzionato in un inventario del 1707, a Nardò, di cui tuttavia non si conosce la ricetta, e tuttavia vedremo meglio in seguito che, anche in questo caso, la sua derivazione è ben più antica.

 

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[1] Una delle ricette più antiche che attestano l’esistenza dello zabaglione è nel ricettario anonimo “Cuoco napoletano”: «Per fare bono zambaglione – Per fare bono zambaglione per farne una taza, piglia quatro ova - zoè lo rossumo, e del zucharo e canella a sufficienzia et de bono vino amabille, e sel fusse troppo fumoso mettelli uno pocho d'aqua o de brodo magro; poi fa lo cocere como se coce lo brodeto et sempre menalo con lo cugiaro; et quando se imbratta, leva lo zabaglione dal focho, poy mettelo in una taza. E questo se da a la sera quando l’homo va a dormir. Et notta ch’el conforta lo cervello.» [Cuoco napoletano, post. 1450]

Successivamente, Vincenzo Corrado sperimenta la cottura dello zabaglione e inventa i “Biscotti all’africana” ovvero gli ‘Africani’:  «Biscotti all’Africana – Mescolali bene dieci gialli di uova con dieci once di zucchero in polvere, in modo, che i gialli diventino quasi bianchi, si condiscano con un senso di cedrato. Poi distribuito questo composto in fogli di carta, disposti a canaletti come un ventaglio, si farà cuocere al forno lentamente, e quando si distaccheranno dalla carta, si possono servire» (Il Cuoco Galante, Napoli, 1773).

[2] Il nome mustaccioli deriverebbe da antiche tradizioni contadine, che nella preparazione di dolci prevedevano l’impiego del mosto.  La ricetta più antica pervenutaci dei mostaccioli napoletani è stata scritta da Bartolomeo Scappi, nel suo «Pranzo alli XVIII di ottobre».

[3] È dibattuta la storia della ricetta della zeppola di San Giuseppe, simile alla versione attuale, che secondo alcuni avrebbe avuto origine nel convento di San Gregorio Armeno, oppure in quello di Santa Patrizia. Altre fonti sostengono, invece,  che le prime a preparare le zeppole, così come le conosciamo oggi, sarebbero state le monache della Croce di Lucca o quelle dello Splendore. C’è addirittura chi sostiene che la consumazione di questo dolce rientrasse tra i “privilegi” del Vicerè di Napoli Juan II de Ribagorza nel 1400, ma non conosciamo una versione, eventualmente, così antica. La prima ricetta delle zeppole, come le conosciamo oggi, pervenutaci in forma scritta risale al 1837 ed è quella descritta nel trattato “Cucina Teorico-Pratica” di Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino.

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